Francesco
Bellotto
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DON PASQUALE in Bergamo

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Don Pasquale
Direttore d'orchestra

Stefano Montanari

Coro e Orchestra
Bergamo Musica Festival Gaetano Donizetti
Maestro del Coro Fabio Tartari

Regia
Francesco Bellotto

Scene
Massimo Checchetto

Costumi
Cristina Aceti

Interpreti principali:
Paolo Bordogna, Eugenio Leggiadri Gallani (Don Pasquale)
Christian Senn (Malatesta)
Linda Campanella (Norina)
Ivan Magrì (Ernesto)

Don Pasquale, Bergamo 2010
Immagini da camera fissa in fondo sala

Un contrasto fra opera
“all'antica” e opera “alla moderna”?

Il 3 gennaio 1843 al Théâtre-Italien di Parigi si mette in scena per la prima volta un “dramma buffo” in tre atti di Gaetano Donizetti. Era almeno dal 1832 (L'elisir d'amore) che il compositore non si cimentava con opere giocose in lingua italiana di ampie dimensioni: nel frattempo aveva continuato a coltivare il genere comico attraverso fulminanti atti unici di soggetto francese e arrivando a sperimentare l'opèra-comique con Fille du régiment e il vaudeville con Deux homme et une femme. Davvero bizzarra al dunque la scelta del soggetto di Don Pasquale per Parigi: si trattava di riscrivere un vecchio libretto di Angelo Anelli per Stefano Pavesi andato in iscena nel 1810 alla Scala di Milano. Il titolo dell'opera nel 1810 era Ser Marcantonio e possedeva esattamente tutto ciò che del comico “all'italiana” era già noto e sfruttato da decenni e decenni.  Quanti vecchi avari beffati da ragazze scaltre e amorose, quanti finti matrimoni, quante finte lettere, quante agnizioni finali, quanti nipoti diseredati e poi ereditieri si erano avvicendati sulle tavole dei palcoscenici prima di Don Pasquale? Eppure il 1843 operistico era epoca ormai molto lontana da quelle storie, da quegli stili: esaurita l' “onda lunga” rossiniana in Italia i grandi teatri commissionavano prevalentemente opere serie. Il genere comico era considerato démodé e tutt'al più si affidavano ad antichi titoli di repertorio (e Ser Marcantonio era diventato uno di questi) le finestre buffe dei diversi cartelloni di Fiera e Carnevale.
 Qualche motivo “contestuale” utile a spiegare la bizzarrìa d'un tuffo nel passato effettivamente c'era: il Teatro degli italiani di Parigi aveva un indirizzo di programmazione specializzato e distribuiva con regolarità testi tipici della tradizione italiana con peculiarità (linguistiche, interpretative, drammaturgiche e stilistiche) tipiche della nostra tradizione. L'impostazione perdurava anche in anni in cui tali peculiarità forse erano estinte o radicalmente mutate anche nel paese d'origine. E Don Pasquale venne percepito così in “controtendenza” che il pubblico della prima -trascinato dalla compagnia stellare Grisi, Mario, Tamburini e Lablache- accolse con un vero trionfo l'opera di Donizetti, mentre la critica e fors'anche l'establishment del teatro, rimasero assai freddi se non addirittura ostili. Salvo poi mutar completamente rotta al cospetto d'un travolgente successo: al Théâtre-Italien per la prima volta veniva scalzato il primato di botteghino de I Puritani, che sopravviveva dal 1835.
 Insomma: gli “esperti” -come al solito- non si erano accorti che il lavoro fatto da Donizetti non era semplicemente una pietanza riscaldata, ma nascondeva un qualcosa di ben più raffinato e interessante. Persino il librettista incaricato, l'esule mazziniano Giovanni Ruffini, era rimasto spiazzato dal progetto, tanto da ritirare la firma: “Non ho messo il nome mio, s'intende, perché fatto con quella fretta e in un certo modo essendo stata paralizzata la mia libertà d'azione dal Maestro”. Ruffini non aveva tutti i torti: il musicista, forte d'una autorevolezza conquistata nei più grandi teatri del mondo, aveva deciso per Don Pasquale di controllare tutte le fasi della gestazione, arrivando addirittura a scrivere di suo pugno diverse scene del libretto.

 E pur partendo da un canovaccio antico, Donizetti compie un gesto di libertà assoluta: abbandona la classica ambientazione rococò dei drammi giocosi, azzardando costumi “alla borghese moderna”. Un bellissimo articolo di Luca Zoppelli (Quaderni della Fondazione, N. 25) ne tratta diffusamente. L'ingresso a gamba tesa della contemporaneità nello scenario di Anelli modifica irreversibilmente i rapporti fra i personaggi. Ad esempio cade il tema convenzionale di un gruppo di oppositori capeggiati da uno o più servi che si ribellano al padrone di casa ancien régime. I caratteri che ruotano attorno al protagonista mutano perciò fisionomia. Malatesta veste i panni d'un medico elegante e misurato: è un caro amico di famiglia animato da nobili intenzioni. In Ser Marcantonio il personaggio corrispondente era un astuto sensale mosso da interesse personale; inventava inganni e travestimenti, con rilievo figaresco del tutto diverso. Donizetti attenua la sentimentalità della coppia degli innamorati. Norina, ad esempio, si presenta all'antica, un po' come Rosina nel Barbiere, cantando una cavatina che comincia con una sezione patetica (“Quel guardo il cavaliere”). La sua passionalità è finta: la giovane vedova in verità sta leggendo un romanzetto rosa, e la sua cabaletta, “So anch'io la virtù magica”, prende il via con il lancio del libro ed una risata che seppellisce qualsiasi smanceria all'antica. Anche Ernesto viene in qualche modo privato della corda patetica: il suo meraviglioso cantabile di presentazione “Sogno soave e casto” viene 'rovinato' dai commenti sarcastici del vecchio zio che lo insulta: “Ma veh che originale! Che tanghero ostinato!”. Persino “Cercherò lontana terra” ha poca incisività drammatica: la disperazione del tenore collocata in quel segmento narrativo dell'opera non commuove fino in fondo perché nel duetto precedente si è scoperto che Malatesta non è un traditore e -soprattutto- si è visto che Norina sta già attuando un piano per arrivare ad una soluzione lieta. Per contrasto, l'unica vera isola sentimentale che si staglia nella partitura è costituita dalla celeberrima scena dello schiaffo del terz'atto: lì Donizetti chiede al pubblico di commuoversi per un personaggio. Il problema è che il personaggio in questione è Don Pasquale, il nemico dell'amore di Ernesto e Norina. Quale opera giocosa ha mai chiesto al pubblico di soffrire e vedere la vicenda con gli occhi del 'cattivo' di turno, si chiami Bartolo, Magnifico o Mustafà? In questo preciso senso Don Pasquale non è solo l'erede di un'antichissima schiatta teatrale di tutori balordi, di Pantaloni innamorati: è anche un personaggio che ha dimenticato che per suscitare il riso è necessario tenere una certa distanza emotiva dallo spettatore. Tutto questo ci viene raccontato da Donizetti rispondendo alla committenza del Théâtre-Italien, che chiedeva un'opera all'antica: il compositore in effetti utilizza una vecchia storia, personaggi decrepiti e persino forme ormai sorpassate come cavatine e duetti rossiniani per una narrazione “alla moderna”.
 
 E si ritorna all'interrogativo di partenza: possiamo parlare di un'opera “antica” come proverebbe l'evidenza di certe sue forme classiche o di un'opera “moderna” come dimostrerebbe invece il raffinato riposizionamento dei suoi componenti? È antico un Don Pasquale che infila un logoro vestito da cerimonia (“Con questo boccon poi di toilette”) o è moderno un vecchio beffato che piangendo spiattella tutte le più intime ragioni del suo sentire?

 Se vogliamo, il fascino suscitato dal settuagenario Da Corneto su Gaetano Donizetti -ormai piuttosto ammalato, e provato da un'esistenza operosissima- è lo stesso tipo di fascino suscitato da Sir John Falstaff sul vecchio Verdi. Odiamo forse i due personaggi per la loro tardiva lussuria e prepotenza? Ce ne sentiamo forse lontani, distaccati? Ne giudichiamo l'agire? Non sono forse cresciute queste due figure nel medesimo campo?

 Sono convinto che proprio il contrasto fra l'età di Don Pasquale e il mondo circostante sia il contributo di geniale originalità di questo dramma. Ma come raccontarlo in uno spettacolo? Come far diventare tale opposizione la chiave di tutto l'allestimento?

 Massimo Checchetto, scenografo del Don Pasquale che va in scena a Bergamo, è stato l'insostituibile interlocutore d'un progetto che -fra liti, discussioni, tentativi e intuizioni- ha occupato per quasi un anno i nostri pensieri.

 Il primo interrogativo naturalmente riguardava la cornice iconografica.

 In quale contesto visivo e storico collocare la nostra azione?

 La prima opzione contemplata ha riguardato naturalmente un generico Settecento con costumi goldoniani, tipico della tradizione giocosa italiana. Questa è l'ipotesi che abbiamo più facilmente scartato: è evidente che Donizetti aveva deliberatamente proceduto in direzione opposta.
 La seconda opzione era decisamente più suggestiva e legittimata dal testo: fissare al 1843 l'epoca di svolgimento. Quella è la contemporaneità progettata dall'autore e cristallizzata attraverso la partitura. Ma è pure indubbio che per lo spettatore di oggi guardare un'azione teatrale calata in uno scenario di 167 anni fa impedisce qualsiasi percezione di quel geniale contrasto di cui sopra: la buca e i cantanti eseguono un testo “antico” in un contesto visivo “all'antica” con personaggi talmente “antichi” da essere entrati in quel museo immaginario che chiamiamo “repertorio”.
 La terza opzione è quella cui non dovrebbe assolutamente sottrarsi un allestitore d'oggi programmaticamente votato al “Teatro di Regia” (maiuscole non casuali). Rispondere cioè alla contemporaneità proposta da Donizetti utilizzando come scenografia la contemporaneità degli spettatori. Una casa romana del 2010 con tutto quel che ne deriva: tivù, internet, smartphone, ecc. Il problema vero è che questo tipo di ambientazione oggigiorno è talmente praticata a teatro da esser diventata anch'essa cliché. Si può dare per Trovatore come per Tristano, per Rigoletto come per Don Giovanni. Esattamente come l'ambientazione in abito goldoniano, avrebbe dunque tolto la possibilità di leggere quel contrasto fra “antico” e “moderno” che abbiamo posto al centro del nostro lavoro.
 Abbiamo dunque escogitato una quarta opzione che permettesse di enfatizzare gli elementi costitutivi del contrasto. Tutta l'azione si svolge all'interno di un perimetro ristretto, la casa di Don Pasquale. È uno spazio che diventa la proiezione visiva degli stati d'animo del protagonista, la traduzione scenografica di ciò che gli studiosi di drammaturgia chiamano “moto interiore” del personaggio. Alla prima levata di sipario Don Pasquale è ritratto nello splendore della sua posizione di forza, che viene esercitata attraverso il dominio completo sull'ambiente. Ha abiti che ci parlano di una “antichità” che non c'è più, di un tardo Ottocento elegante e confortevole. Ma -in verità- è la sua dimora a raccontarci l'appartenenza del padrone ad un'epoca remota. È la casa di un collezionista d'arte classica. Suppellettili preziose, mobili d'antiquariato, tappeti, statue e soprammobili caratterizzano l'ambiente. Ma sono soprattutto i quadri -la scena potrebbe essere intesa come la galleria d'una grande pinacoteca dedicata alle rovine romane- a svelare il mondo di immagini eleganti, gusti raffinati e ricordi che alberga nella mente di Don Pasquale.
 La Pittura è il filo d'inchiostro che lega le parole del nostro racconto, e che rende evidente il contrasto fra il mondo “antico” di Pasquale e il mondo “moderno” degli altri. Se Don Pasquale è un collezionista di opere d'arte “all'antica”, Ernesto sarà un creatore di opere, un pittore “alla moderna”. Il museo è arte ferma, fissa e morta. La creazione del pittore è movimento, gesto cangiante e vivo. Tale contrasto  -fra l'altro- permette di dar spessore alla figura di Ernesto. Perché mai una donna bella, vissuta e intelligente come Norina dovrebbe innamorarsi di un bamboccione irresoluto che vive alle spalle dello zio? La verità è che Norina ama in Ernesto proprio la creatività e la capacità di compiere gesti poetici. Ce lo rivela il compositore attraverso la musica, con gli straordinari  cantabili affidati al tenore. Nel corso dell'opera, col dipanarsi della beffa di Sofronia culminante nello sfregio dello schiaffo, il dominio, la sicurezza, la psicologia di Don Pasquale vengono via via demoliti, mentre cresce il potere poetico di Ernesto sul mondo circostante.
 La scenografia si muove seguendo esattamente il medesimo tracciato. Il mondo di Don Pasquale lascerà gradualmente posto al mondo di Ernesto e Norina.

Dalla recensione di Andrea Dellabianca in GBOPERA

«Insolito e molto personale il “Don Pasquale” messo in scena al Teatro Donizetti di Bergamo che conclude la stagione lirica 2010 del Bergamo Musica Festival. I punti focali di questa nuova produzione sono indubbiamente la concezione registica e scenica del Direttore Artistico del Teatro stesso, Francesco Bellotto e la lettura invero originale che, del protagonista dell’opera, dà il baritono Paolo Bordogna. Bellotto ambienta la narrazione operando uno split essenziale tra il mondo antico da cui Don Pasquale proviene e quello moderno che appartiene alla giovane coppia di innamorati e che si ispira scenicamente agli anni ’60 nella loro accezione più innovativa e di rottura. Le scene di Massimo Checchetto sono perfettamente calibrate su tale concezione, così come i magnifici costumi di Cristina Aceti omaggiano la moda, ma anche il cinema, dei “favolosi ’60″. Paolo Bordogna ha in mente un Pasquale da Corneto che rappresenta la summa dello stile, dell’eleganza e della compostezza tipici di un’epoca passata, dall’effetto molto fané. Innanzitutto questo Don Pasquale ha fascino da vendere, con la sua bianca chioma impomatata che fa venire alla mente Richard Gere e con una figura snella, impreziosita da un nobile portamento (volutamente sporcato da un leggero accenno di zoppìa). Il suo personaggio appare quindi come un anziano e distinto signore piuttosto che il vecchio becero e panciuto della tradizione. Così, quando Norina-Sofronia si riferisce a lui tacciandolo di essere un uom decrepito, pesante e grasso e la conseguente espressione incredula di Don Pasquale, il tutto suona come un insulto femminile perfido e gratuito, proferito con la sola intenzione di ferire. In quest’ottica Bordogna realizza un protagonista verso il quale l’empatia del pubblico è totale. Il momento dello schiaffo costituisce l’apoteosi di tale visione: un improvviso cambio di luci dà inizio allo scioglimento della scenografia,che collassa lentamente su se stessa, cullata dalla straziante musica di Donizetti, mentre par di scorgere lacrime vere negli occhi di Bordogna, tutto assorbito in una dolente catarsi. Il cantante poi, non è da meno dell’attore. Di rado, in tempi recenti, tale parte è stata cantata con altrettanta dovizia di particolari, soprattutto per quanto concerne l’esecuzione di tutte le indicazioni dinamiche ed i segni d’espressione scritti da Donizetti, la chiarezza di dizione, il legato nei recitativi, la precisione ritmica nei sillabati (la sezione conclusiva del duetto con Malatesta, peraltro eseguita con un’unica presa di fiato), l’uso del cantato per frasi che solitamente vengono parlate. Insomma, Bordogna si riconferma un cantante-attore di classe, capace di trovarsi a suo agio in qualsiasi terreno interpretativo. Accanto a lui la travolgente Norina di Linda Campanella. Il soprano appare in forma vocale smagliante, in una parte che le si confà a meraviglia. Disinvolta e coinvolgente, questa Norina fa il suo ingresso con un look alla Jane Fonda in Barbarella che accende più d’un sussulto tra il pubblico. L’aria scorre brillantissima e gradevolmente abbellita in un’esecuzione immune da difetti. E via così per tutta l’opera, dove la Campanella fa valere le ragioni di una fresca coquetterie. In sostanza, si ritrovano le belle qualità già riscontrate nella sua recente Gilda bergamasca, rese più efficaci dalla maggiore fusione vocale con il ruolo. Christian Senn (Malatesta) ha una voce il cui morbido impasto, unitamente ad un volume generoso, si fa apprezzare notevolmente, anche se latitano un poco i colori. Tuttavia, la sua recitazione è sempre elegante e misurata, riuscendo così a comporre un ritratto piacevole. »

Andrea Dellabianca
Recensione completa in http://www.gbopera.it/2010/12/bergamo-musica-festival-don-pasquale/

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