Francesco
Bellotto
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ROBERTO DEVEREUX

about me > TITOLI > 2006
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Roberto Devereux, Bergamo 2006,
Immagini Photo Studio UV
Sequenze video dal DVD Naxos


VIDEO
DIRECTOR'S NOTES

Roberto Devereux DvD (Naxos) is
"Recording of the Year 2008"

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Un anello, una sciarpa e una corona
Note di regia

Tre è il numero che classicisticamente governa la drammaturgia di Roberto. Tre sono gli atti. Tre sono le sfere aristoteliche di luogo: Westminster (sotto il dominio di Elisabetta); la prigione (sotto il dominio dei Lord); la casa di Sara (sotto il dominio di Nottingham).Tre sono gli artefici della trama, tutti legati sentimentalmente a Roberto. Sono loro che mutano i destini del conte: la regina (innamorata non ricambiata); Sara (innamorata ricambiata ma non più libera); Nottingham (il fedele amico e compagno d’armi tradito).Tre volte Roberto è accusato di tradimento: per motivi politici da parte della corte; per amore da parte di Elisabetta; per gelosia da parte di Nottingham.

Ma, soprattutto, tre sono i simboli che gli autori ci mostrano per raccontare visivamente sul palcoscenico tale parabola. Sono tre oggetti di scena del medesimo tipo: sono dei vincoli circolari, dei nodi. Il primo è un anello, segno del legame fra Elisabetta e Roberto. Il secondo è una sciarpa, segno del legame coniugale fra Sara e Nottingham. Il terzo è una corona, segno del legame fra la Regina e il suo Stato.

La drammaturgia di Roberto si basa dunque su di un espediente teatrale semplice ed antichissimo: lo scambio degli oggetti. Nelle opere comiche di solito gli attrezzi che occupano un posto ‘sbagliato’ (ad esempio la lettera del Signor Bruschino o il fermaglio delle Nozze) generano equivoci che – una volta chiariti – conducono al lieto fine. Nelle opere tragiche gli oggetti spostati diventano motore della catastrofe finale. Se vogliamo, nelle trame comiche la ragione ha il sopravvento sugli oggetti. Nelle trame tragiche invece nulla possono le verità degli uomini contro l’invincibile potere degli oggetti: un fazzoletto  trasforma il razionale Otello in assassino; una fiala di sonnifero diventa il veleno più potente per Giulietta e Romeo.
In Roberto Devereux l’anello di Elisabetta passa dal conte di Essex a Sara. Sara ricambia il dono regalando a Roberto una sciarpa da lei ricamata durante quelle notti di veglia piangente alle quali il marito assisteva, preoccupato e ignaro. L’anello così perde il suo potere di salvacondotto, e la sciarpa diventa invece la prova di un adulterio (forse più mentale che fisico). Per conseguenza si arriva allo spostamento del terzo vincolo: Elisabetta, distrutta come donna e sconfitta come regina, depone la corona a favore di Giacomo I.
Dal punto di vista dello scorrere del tempo, si ha l’impressione di un dramma rapido, talvolta violentemente rapido nella successione degli eventi. Per rimanere al solo epilogo, il compositore confina nelle ultime 12 battute dell’opera (pochi secondi) l’esito politico dello scandalo: mentre il coro commenta moraleggiando, Elisabetta proclama a gran voce la propria abdicazione «Dell’anglica terra sia Giacomo il Re!». In quel finale, i ritornelli musicali di Elisabetta non sono scritti assieme a ritornelli di parole: contravvenendo alle abitudini, ogni volta che si ripete la musica i versi cambiano. È un’aria in cui le parole cantate seguono esattamente il tempo delle parole recitate, come accadeva invece nei recitativi. Si
trattava di una innovazione abbastanza sbalorditiva che non mancò di scandalizzare i critici napoletani del 1837. Ma è tutta la struttura dell’opera ad essere effettivamente congegnata in un crescendo parossistico. Si tratta di una mirabile strategia per accelerare il tempo della narrazione senza sovvertire radicalmente gli usi teatrali dell’epoca. Il primo atto è totalmente statico. Si presentano i personaggi e le loro posizioni.Tre cavatine, classiche arie di sortita assegnate ai tre artefici: Sara, Elisabetta, Nottingham. Roberto, il title role, paradossalmente non ha aria di presentazione. Già da questo il pubblico comprende che la sua storia non è che una una ‘conseguenza’ delle azioni degli altri.Viene sempre portato in scena da motivazioni esterne: non è padrone neppure delle proprie gambe. È arrivato a Londra perché la camera dei Lord deve giudicarlo; è a colloquio privato con Elisabetta perché la regina conduce un assalto amoroso (che lui goffamente capisce troppo tardi); Nottingham lo difende senza che lui neppure lo chieda esplicitamente (anzi, preferirebbe inizialmente essere condannato); s’intrufola in camera di Sara non tanto perché voglia intrecciare nuovamente la sua segreta storia d’amore, ma perché trascinato dalla gelosia: non sa che la duchessa ha sposato Nottingham per imposizione di Elisabetta. In questo senso anche il suo incontro furtivo è determinato da un’azione esterna, dall’imperio della regina. Si può ben dire che il primo atto si presenti perciò come una serie di immagini fisse, volontà divergenti e immobili: Elisabetta vorrebbe essere amata da Roberto ma lui non l’ama; Sara vorrebbe essere la sposa di Roberto ma è sposa di Nottingham; Nottingham vorrebbe essere il marito della sua sposa, ma lei non l’ama. Roberto è trascinato fra le passioni ora dell’uno ora dell’altra cercando oltretutto di essere scagionato.

Ma in verità nel primo atto nulla accade.

Il secondo atto è invece l’atto degli accadimenti. Si svolge tutto in uno stesso luogo, nella sala del trono. Qualche anno prima sarebbe stata per Donizetti e Cammarano la situazione perfetta per comporre un grande concertato di metà opera: la regina furente per gelosia, il marito tradito che scopre la prova dell’infedeltà di Sara, il tenore che preferisce la decapitazione piuttosto che rivelare il nome dell’amata, la condanna a morte fra i cortigiani schiumanti rabbia e vendetta. La cosa geniale è che gli autori hanno voluto coscientemente separare con una chiusura di sipario l’introduzione della situazione scenica (statica, il primo atto) dal suo svolgimento (dinamico, il resto dell’opera). Il secondo atto è dunque una sorta di concertato dilatato, la deflagrazione di quelle volontà divergenti cui accennavo, episodio che assume una potenza notevole proprio perché preceduto da una lunga sospensione dell’azione drammatica. Il terzo atto può essere considerato come il precipitare, come un procedere meccanico ed inarrestabile di tre finali separati, conseguenza dell’atto secondo. I tre finali sono agiti in luoghi differenti ma in tempi quasi contemporanei. Una trasposizione cinematografica ricorrerebbe ad un montaggio incrociato di tre location diverse: 1) Il ‘primo finale’ chiude la parabola coniugale di Sara e Nottingham. Siamo negli appartamenti di Sara, il duca è offeso come marito e come amico: vuole che il rivale sia condannato e dunque disobbedisce alla legge ignorando volutamente il significato dell’anello. 2) Durante il diverbio coniugale, nella torre di Londra, il ‘secondo finale’ chiude l’esistenza di Roberto. Finalmente a Roberto viene concessa un’aria solista: anche in questa occasione Roberto spera fino in fondo che qualcun altro – dall’esterno – giunga a liberarlo, cosa che non accade. 3) Mentre Roberto dà il suo addio alla vita e Sara è sequestrata con l’anello in casa Nottingham, il ‘terzo finale’ dedica lo sguardo alle stanze della regina. Elisabetta ha sbagliato come donna e come capo di stato: ha usato il proprio potere per vendicarsi d’un antico amante infedele. Ora – pentita – vorrebbe salvarlo. L’arrivo in scena di Sara rompe la separazione dei finali: da questo momento le unità aristoteliche si riannodano convergendo in direzione unica. L’anello torna nelle mani di Elisabetta, ma troppo tardi, perché Roberto viene decapitato. La sciarpa è tornata ai coniugi Nottingham, colpevoli a questo punto di doppio tradimento. Rimane la corona. La regina, vinta dal potere degli oggetti, ha finalmente chiara la portata del suo fallimento come donna e come sovrana: abdica, proclamando pubblicamente il proprio suicidio politico.

Per raccontare visivamente questa storia ho utilizzato elementi di  uno sperimentato allestimento dell’Opera di Roma disegnato da David Walker.  Le profondità sono scandite attraverso giochi di sipari progressivi. I costumi riprendono l’iconografia storica della corte di Elisabetta Tudor. Ho voluto inserire pochissimi elementi di scena ed arredamento, nella convinzione che il testo avesse in sé grande forza e suggestione. In generale, ho cercato di far parlare partitura e libretto, in qualche modo provando a ‘nascondere’ il lavoro di regia. Bisogna infatti dire chiaramente come gli autori abbiano fornito una serie di connotazioni davvero impressionanti. Un indizio sopra tutti: Donizetti in molte opere (ad esempio Lucia o Elisir) sceglie un personaggio e lì concentra (attraverso melodie memorabili) tutta la sua potenza sentimentale: in quel personaggio il compositore vuole che il pubblico s’immedesimi. Se consideriamo invece la musica dei quattro protagonisti del Devereux, ci rendiamo conto che tutti hanno almeno un momento di grande intensità patetica: Sara, Elisabetta e Nottingham nei cantabili delle loro arie di presentazione, Roberto nella sua grande scena di prigione. Questo significa una cosa ben precisa: il compositore ha deciso di non prendere le parti di nessuno dei suoi personaggi. Per Donizetti sono animati da sentimenti giusti, condivisibili, in qualche modo colpevoli ed innocenti allo stesso tempo. Tutti e quattro amano nobilmente in maniera vera e disinteressata, e tutti e quattro,  in maniera tragicamente umana, tradiscono ignobilmente i loro doveri. Il finale dell’opera è dunque totalmente pessimistico, non vince nessuno e pèrdono tutti: muoiono Roberto, Sara e Nottingham, mentre alla regina spetta forse un destino ancor più amaro. Elisabetta è come Donizetti in quel 1837. Gaetano nel giro di poco più di un anno è rimasto disperatamente solo: ha perso il padre, la madre, un figlio neonato e infine l’amatissima moglie Virginia. Elisabetta, come il suo creatore, sopravvive fisicamente alla morte di tutti i suoi cari, della sua famiglia.  Devereux è partitura nata accompagnando cronologicamente i tragici eventi della morte di Virginia. Come segnala Paolo Fabbri  («Fugge il tempo... L'heure fuit», in Quaderni della Fondazione N. I, Bergamo, 2006, p. 19), Donizetti così ne parlava: «Questa sarà per me l’opera delle emozioni; ma non desidero cominciare le fatiche, ché ad ogni pagina...» E così, nonostante l’opera s’intitoli Roberto Devereux, alla fine, quando si chiude l’ultimo sipario, rimaniamo con la certezza che la storia che abbiamo visto è invece quella della regina, tragico personaggio che ha dovuto lasciar dietro di sé, brano dopo brano, tutta se stessa, un po’ come il compositore. Elisabetta dismette i panni di donna rinunciando ad amare, spoglia l’abito di tutore della legge contraddicendo le proprie sentenze, e infine si sveste pure della corona abdicando. È un percorso che ho voluto cercare di raccontare utilizzando principalmente degli oggetti-simbolo: i tre ‘nodi’ proposti dagli autori e i tre abiti della sovrana che diventano, col procedere dell’opera, tre simboli svuotati.


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