LA STATIRA
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Fotografie della prova generale al Teatro Malibran
realizzate da Fabio Barettin
e Michele Crosera
©
Rassegna stampa
Statira, Albinoni fra amore e guerra
di Cesare Galla
«La regia era di Francesco Bellotto, a buon diritto da considerare uno dei protagonisti di questa piccola ma importante “renaissance” operistica del compositore veneziano, visto che sua è la firma anche di questa Statira.
Se l’anno scorso Bellotto aveva impaginato quel melodramma [Zenobia, n.d.r.] in chiave storico-politica, con una sorta di attualizzazione dell’antica vicenda della regina di Palmira ai tempi della composizione (e quindi l’imperatore Aureliano diventava in quello spettacolo una proiezione del doge condottiero Francesco Morosini), questa volta ha scelto una lettura improntata all’ironia e alla fantasia. Non esitando a smontare i meccanismi melodrammatici di Zeno e Pariati, seguiti con rigore da Albinoni, in certo modo quasi a svelarne la scarsa plausibilità lasciandone intravvedere aspetti perfino caricaturali.
In effetti, lo spettacolo finisce per avere – nelle immagini e nella drammaturgia – il tono proprio della tragicommedia, genere nel quale Pariati era versato. Diventa un personaggio (ovviamente muto, ma i suoi gesti valgono più di un’Aria) anche l’ombra di Artaserse: all’inizio il suo cadavere rifiuta di lasciarsi strappare dalle due contendenti lo scettro, segno del potere. Del resto non è stato ancora cremato né sepolto, come dice il libretto, e quindi in scena c’è la sua bara aperta. Quando il lieto fine avrà combinato tutte le tessere della storia, finalmente quella bara potrà essere inchiodata. Ma per tutta l’opera, Artaserse si aggira fra i personaggi. E se ad esempio Idaspe, preparando la sua vendetta, canta “Di un barbaro, di un empio/ vo’ far vendetta e scempio”, lui è lì che gli gira intorno e con malcelata impazienza mette a sua disposizione una bomba a orologeria e una bottiglia di veleno, senza che l’altro se ne avveda. Nello spettacolo che si vale delle scene eleganti e semplici di Alessia Colosso e dei costumi a loro volta ironici ma anche allusivi di Carlos Tieppo (luci di Fabio Barettin) non mancano i simbolismi tipici della cultura barocca – visto che alla base c’è il confronto fra la Virtù e il Vizio. Ma alla fine il registro che prevale e funziona è quello di un certo disimpegnato “straniamento”, che ha l’effetto di rendere più vicina al pubblico odierno una storia altrimenti da museo archeologico.»
Recensione completa in:
https://www.cesaregalla.it/2019/03/09/statira-albinoni-fra-amore-e-guerra/
https://www.lesalonmusical.it/venezia-statira-un-altro-albinoni-rivelato-fra-ironia-e-impegno/
Venezia: Statira, un altro Albinoni rivelato fra ironia e impegno
di Alessandro Cammarano
«Se l’anno scorso Bellotto aveva impaginato quel melodramma in chiave storico-politica, con una sorta di attualizzazione dell’antica vicenda della regina di Palmira ai tempi della composizione (e quindi l’imperatore Aureliano diventava in quello spettacolo una proiezione del doge condottiero Francesco Morosini), questa volta ha scelto una lettura improntata all’ironia e alla fantasia. Non esitando a smontare i meccanismi melodrammatici di Zeno e Pariati, seguiti con rigore da Albinoni, in certo modo quasi a svelarne la scarsa plausibilità lasciandone intravvedere aspetti perfino caricaturali. In effetti, lo spettacolo finisce per avere – nelle immagini e nella drammaturgia – il tono proprio della tragicommedia, genere nel quale Pariati era versato. [...] Nello spettacolo che si vale delle scene eleganti e semplici di Alessia Colosso e dei costumi a loro volta ironici ma anche allusivi di Carlos Tieppo (luci di Fabio Barettin) non mancano i simbolismi tipici della cultura barocca – visto che alla base c’è il confronto fra la Virtù e il Vizio. Ma alla fine il registro che prevale e funziona è quello di un certo disimpegnato “straniamento”, che ha l’effetto di rendere più vicina al pubblico odierno una storia altrimenti da museo archeologico.»
Recensione completa in:
Venezia, Teatro Malibran - La Statira
di Francesco Bertini
Recensione completa in:
https://www.connessiallopera.it/recensioni/2019/venezia-teatro-malibran-la-statira/
La Fenice: a scuola d’opera con Albinoni
di Stefano Nardelli
Articolo completo in:
Note sullo spettacolo
La Statira è un dramma per musica in tre atti di Apostolo Zeno e Pietro Pariati su musiche del veneziano Tomaso Albinoni. Le cronache raccontano che venne rappresentata la prima volta al Teatro Capranica di Roma durante il Carnevale del 1726 per essere ripresa più volte a Venezia e in Europa nel corso del XVIII secolo.
Il Teatro La Fenice ne ha commissionato una nuova trascrizione a Franco Rossi, mettendola in scena per la prima volta in tempi moderni.
Dovendo dar credito alla prefazione di Apostolo Zeno e Pietro Pariati, la vicenda si dovrebbe svolgere a Tauris, capitale della Persia, plausibilmente nel 246 a.C., anno in cui Arsace I divenne re e diede origine alla nuova dinastia. Tuttavia, l'intreccio con Statira, Dario, Ciro e Barsina richiamerebbe l'epoca di Arsace/Artaserse II (detto Mnemone) che – invece – divenne re nel 405. Dunque, i personaggi del libretto, pur rifacendosi a modelli storici esistiti in epoche diverse, hanno trattamento di fantasia: la narrazione non corrisponde agli accadimenti e alle genealogie attestati dagli storiografi.
La trama è piuttosto complessa, come sovente capita nelle opere di quest'epoca, e può essere semplicisticamente ricondotta a una lotta di successione al regno di Persia. Dopo la morte in battaglia di Artaserse, le due nobili principesse Statira e Barsina sostengono di avere diritto al trono. Il conflitto politico nasconde – come di prammatica – anche un conflitto sentimentale: Statira è promessa sposa al comandante Arsace, mentre la malvagia e ambiziosa Barsina, segretamente innamorata del valoroso condottiero, vorrebbe sbarazzarsi della rivale.
Nel frattempo, Oronte, re degli Sciti è riuscito a invadere la Persia: il nuovo dominatore irrompe in città e cerca alleanze per pacificare le fazioni. Si innamora di Statira e le propone di diventare regina consorte, scatenando la gelosia di Arsace e l'invidia furibonda di Barsina, che organizza una congiura. Oronte subisce dunque un attentato: sfugge alla morte e gli indizi di colpevolezza conducono ad Arsace, che viene condannato a morte. Ma il vero attentatore, il principe Idreno, si autodenuncia non potendo tollerare il pensiero che il fedele e nobile Arsace possa esser giustiziato al suo posto. Il re di Scitia, avendo avuto modo di conoscere personalmente il valore e le virtù di Statira e Arsace li insedia sul trono, inaugurando un nuovo periodo di pace, alleanza e prosperità.
Interessantissimo, e inedito, il vivido ritratto di due figure femminili titaniche: le principesse si contendono trono e affetti giocando ogni carta, senza risparmiarsi. Statira nel campo della legalità e della Virtù, Barsina nel campo dell'inganno e del Vizio.
Per questa ragione, assieme alla scenografa Alessia Colosso, abbiamo deciso di rappresentare visivamente tale dispositio simbolica. Ammiccando all'iconologia del Ripa avremo porte opposte: a sinistra quella della fazione 'virtuosa', color grigio e contrassegnata dalla Cornucopia; a destra quella 'viziosa', color rosso e contrassegnata dall'Idra. La simmetria fra le parti ci ammonisce a non prender parte né per una né per l'altra principessa: quasi fossero facce d'una stessa medaglia, vizio e virtù sono gemelli inscindibili, legati da un ideale cordone ombelicale. Il padre, re Artaserse, è presente in scena come spettro: è il fantasma d'un potere che contrasta e obnubila la ragione. Solo uccidendone la memoria gli uomini potranno aspirare alla libertà.
Attorno al mondo bipolare femminile si muove una serie di 'satelliti' maschili (Arsace, Oribasio, Dario) che subisce un'attrazione gravitazionale invincibile e non riesce a incidere realmente sullo svolgimento dei fatti.
La rottura della simmetria, come fosse formula alchemica, è data dall'arrivo violento del dominatore straniero: Oribasio è l'unico personaggio maschile ad avere complessità psicologica e mutevole capacità d'adattamento. Il re Scita segue un vero e proprio percorso di 'educazione': provato dalle vicende occorse e mutato dall'incontro/scontro con le due gigantesche personalità delle principesse saprà tramutarsi da odioso dominatore in illuminato sovrano. Lui sarà il proprietario d'una terza porta, centrale e bianca; il suo simbolo (il Libro) evoca la Sapienza, vera vincitrice dell'agone.
Il Teatro La Fenice ne ha commissionato una nuova trascrizione a Franco Rossi, mettendola in scena per la prima volta in tempi moderni.
Dovendo dar credito alla prefazione di Apostolo Zeno e Pietro Pariati, la vicenda si dovrebbe svolgere a Tauris, capitale della Persia, plausibilmente nel 246 a.C., anno in cui Arsace I divenne re e diede origine alla nuova dinastia. Tuttavia, l'intreccio con Statira, Dario, Ciro e Barsina richiamerebbe l'epoca di Arsace/Artaserse II (detto Mnemone) che – invece – divenne re nel 405. Dunque, i personaggi del libretto, pur rifacendosi a modelli storici esistiti in epoche diverse, hanno trattamento di fantasia: la narrazione non corrisponde agli accadimenti e alle genealogie attestati dagli storiografi.
La trama è piuttosto complessa, come sovente capita nelle opere di quest'epoca, e può essere semplicisticamente ricondotta a una lotta di successione al regno di Persia. Dopo la morte in battaglia di Artaserse, le due nobili principesse Statira e Barsina sostengono di avere diritto al trono. Il conflitto politico nasconde – come di prammatica – anche un conflitto sentimentale: Statira è promessa sposa al comandante Arsace, mentre la malvagia e ambiziosa Barsina, segretamente innamorata del valoroso condottiero, vorrebbe sbarazzarsi della rivale.
Nel frattempo, Oronte, re degli Sciti è riuscito a invadere la Persia: il nuovo dominatore irrompe in città e cerca alleanze per pacificare le fazioni. Si innamora di Statira e le propone di diventare regina consorte, scatenando la gelosia di Arsace e l'invidia furibonda di Barsina, che organizza una congiura. Oronte subisce dunque un attentato: sfugge alla morte e gli indizi di colpevolezza conducono ad Arsace, che viene condannato a morte. Ma il vero attentatore, il principe Idreno, si autodenuncia non potendo tollerare il pensiero che il fedele e nobile Arsace possa esser giustiziato al suo posto. Il re di Scitia, avendo avuto modo di conoscere personalmente il valore e le virtù di Statira e Arsace li insedia sul trono, inaugurando un nuovo periodo di pace, alleanza e prosperità.
Interessantissimo, e inedito, il vivido ritratto di due figure femminili titaniche: le principesse si contendono trono e affetti giocando ogni carta, senza risparmiarsi. Statira nel campo della legalità e della Virtù, Barsina nel campo dell'inganno e del Vizio.
Per questa ragione, assieme alla scenografa Alessia Colosso, abbiamo deciso di rappresentare visivamente tale dispositio simbolica. Ammiccando all'iconologia del Ripa avremo porte opposte: a sinistra quella della fazione 'virtuosa', color grigio e contrassegnata dalla Cornucopia; a destra quella 'viziosa', color rosso e contrassegnata dall'Idra. La simmetria fra le parti ci ammonisce a non prender parte né per una né per l'altra principessa: quasi fossero facce d'una stessa medaglia, vizio e virtù sono gemelli inscindibili, legati da un ideale cordone ombelicale. Il padre, re Artaserse, è presente in scena come spettro: è il fantasma d'un potere che contrasta e obnubila la ragione. Solo uccidendone la memoria gli uomini potranno aspirare alla libertà.
Attorno al mondo bipolare femminile si muove una serie di 'satelliti' maschili (Arsace, Oribasio, Dario) che subisce un'attrazione gravitazionale invincibile e non riesce a incidere realmente sullo svolgimento dei fatti.
La rottura della simmetria, come fosse formula alchemica, è data dall'arrivo violento del dominatore straniero: Oribasio è l'unico personaggio maschile ad avere complessità psicologica e mutevole capacità d'adattamento. Il re Scita segue un vero e proprio percorso di 'educazione': provato dalle vicende occorse e mutato dall'incontro/scontro con le due gigantesche personalità delle principesse saprà tramutarsi da odioso dominatore in illuminato sovrano. Lui sarà il proprietario d'una terza porta, centrale e bianca; il suo simbolo (il Libro) evoca la Sapienza, vera vincitrice dell'agone.
In Statira, a trent'anni dal folgorante inizio di carriera con Zenobia, incontriamo un Tomaso Albinoni all'apice del successo internazionale e soprattutto un artista maturo. Da giovane compositore estremamente talentuoso e personalissimo si è imposto come uno dei massimi compositori operistici del suo tempo. L'autore oramai è dedito a una scrittura sapientissima, ricca di novità e atteggiamenti d'avanguardia che dovevano essere il vero motivo della fama internazionale di cui godeva.
Quello che sorprende in Statira è l'evoluzione degli stilemi armonici, da una parte legati alla tradizione veneziana e dall'altra assolutamente inventati. Sorprendenti la scrittura violinistica, intessuta con nuova brillantezza, e i nuovi criteri di orchestrazione, spregiudicati e fortemente espressivi. Rimaniamo ammirati dalla capacità di dare spessore sia al ritmo teatrale scoppiettante del libretto, sia alla sottigliezza psicologica dei personaggi. La tavolozza espressiva è certamente organizzata in affetti, ma con una varietà e una finezza di mezzi che sembra porre Albinoni a un piano più elevato di altri celebrati contemporanei. Come noto, le bombe alleate hanno distrutto tutti gli altri suoi titoli: se così non fosse stato, forse oggi potremmo parlare in termini diversi del suo ruolo nell'evoluzione del teatro d'opera. Dalle partiture rimaste di Albinoni appare infatti evidente l'enorme influenza e diffusione della scrittura teatrale monteverdiana nella tradizione veneziana della prima metà del secolo. Tradizione che diventa germe di raffinatezze e sincerità di tono anche per il secondo Settecento. Partiture come quelle di Statira costituiscono dunque sinapsi ben salde che legano esplicitamente la letteratura veneziana cosiddetta 'barocca' a quella cosiddetta 'belcantistica'.
La riduzione drammaturgica presentata al Malibran vuole assecondare l'assetto 'filosofico' del dramma anche dal punto di vista musicale. La concertazione separa uditivamente i tre mondi rappresentati nella messinscena: il Vizio è connotato dal recitativo secco; la Virtù dall'arioso mensurato; la Sapienza dall'alternanza di tutti gli stili d'eloquio musicale. Nel percorrere questa strada abbiamo messo a frutto le ricerche svolte negli ultimi anni sulle tecniche di realizzazione e strumentazione del Continuo assecondando la stretta correlazione con le caratteristiche drammaturgiche dei testi.
(Francesco Erle e Francesco Bellotto)