Francesco
Bellotto
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LUCREZIA BORGIA

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Lucrezia Borgia, Bergamo 2007, (Photo Studio UV)
Scene di Angelo Sala, Costumi di Cristina Aceti
Luci di Valerio Alfieri

Immagini dal DVD Naxos
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Lucrezia Borgia DvD (Naxos) is
"Recording of the Year 2009"
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Lucrezia Borgia, Bergamo 2007
Immagini dal Dvd Naxos

Una paurosa notte,
figlia dell’inferno
Note di regia

Esiste un’ora, a ridosso dell’alba, che gl’insonni temono di più: lì le paure, i dubbi e le colpe si tingono di potenza inaspettata, e l’angoscia non dà requie. Shakespeare la racconta attraverso Enrico V, nella veglia prima della battaglia di San Crispino: «So benissimo che l’unguento, lo scettro, il globo e la spada, la mazza, la corona imperiale, i titoli pomposi e prolissi che annunciano il sovrano, il trono su cui siede, nessuna di queste cose poste in un letto maestoso dormono così profondamente come il miserabile servo che con ventre pieno e mente vuota va a riposare, sazio di sudato pane; che non vede mai la paurosa notte, figlia dell’inferno: se non fosse per le cerimonie, questo miserabile che passa i suoi giorni nel lavoro e le notti nel sonno, sarebbe più grande del re».

Ingmar Bergman l’ha chiamata ‘l’ora del lupo’ e ad essa ha dedicato un’allucinata pellicola nel 1968. Fuori dalle città, vicino ai boschi e alle foreste, a quell’ora tutti gli animali della notte tacciono, perché il lupo viene a prendere le sue prede. Gli addormentati, viceversa, nell’ora del lupo dormono il sonno più profondo, popolato da incubi così spaventosi da sembrare reali. È l’ora che i ladri ben conoscono, perché il padrone in quel momento non sente rumori, è totalmente indifeso. Per Bergman «è l’ora in cui molte persone muoiono, ma è anche l’ora in cui molti bambini nascono». Gennaro, figlio della Borgia, s’addormenta all’inizio del dramma. Il finale lo vedrà cadere, volontariamente, in un sonno senza risveglio.

Donizetti dovette rimanere molto colpito dalla tinta di Lucrèce Borgia di Victor Hugo, che comprendeva l’azione fra due notti di festa. Ne fu talmente impressionato da enfatizzarne la scurezza ed addirittura rischiare di rompere il corretto flusso dell’unità temporale: Hugo ambientava la scena dell’oltraggio «Borgia-Orgia» di mattina e il successivo episodio nella sala privata del duca al pomeriggio, per poi riproporre altri due notturni per le scene che chiudono il lavoro. L’opera di Donizetti invece colloca la scena dell’oltraggio prima dell’alba. In questo modo tutta l’azione è calata in un soffocante e antirealistico notturno. È una geniale decisione, presa dagli autori a lavoro già inoltrato. Lo scopriamo attraverso le parole di Lucrezia nella seconda scena del primo atto, dove al librettista Felice Romani sfugge una contraddizione:  «Avvi in Ferrara chi della vostra sposa | a pien meriggio oltraggia il nome, e mutilarlo ardisce». Hugo aveva collocato l’evento in «pien meriggio», mentre Donizetti lo cala deliberatamente nell’ «ora del lupo».
Anche lo spazio dell’opera sembra scivolare nell’indeterminatezza antiaristotelica d’una avventura onirica. Grazie alla risistemazione operata da Donizetti e Romani i tre atti sono sotto dominî distinti: il prologo è soggetto alla repubblica veneziana; il primo atto è soggetto al ducato estense; il secondo atto, mercé il tradimento della Negroni, soggetto alla criminale autorità della Borgia. La piazza e la strada, in cui avvengono lo sfregio del nome e il tentativo di rapimento, sono luoghi in cui tutti devono guardarsi da tutti: sono passaggi, lì il dominio non è esercitato.

Ma questi elementi non sono i soli a sfuggire ad una evidente aura di indeterminatezza. Pensiamo alle relazioni fra i personaggi: sono collegate da una catena di passioni e vicende contemporaneamente lecite ed illecite. Gennaro ama una madre che non conosce; ma quando la vede ne è sensualmente attratto. Maffio Orsini è legato a Gennaro da un’amicizia d’onore e di armi, ma quando nell’ultimo atto i personaggi si trovano per la prima volta da soli, ne nasce un duetto affettuoso e sentimentale. Il duca Alfonso è mosso da comprensibile sete di vendetta nei confronti del presunto amante della duchessa, ma diventa un assassino senza onore quando cerca di far avvelenare (con l’inganno) il capitano di ventura che aveva salvato la vita di suo padre. Concentriamoci su Lucrezia: la mostruosità ritratta da Hugo è totale. È moglie ma non ama il marito. È madre ma uccide il proprio figlio insieme a tutti gli amici. È figlia del Papa ma ne è l’amante. È sorella di Cesare ma va a letto pure con lui. Non contenta, lo tradisce con un altro fratello, Juan, e ne rimane incinta (il figlio sarà il Gennaro dell’opera). Juan verrà assassinato, per gelosia, da Cesare. In sostanza è come se Lucrezia non conoscesse regole. La corruzione nella corte dei Borgia l’ha portata a non accettare la naturale gerarchia verticale fra generazioni: lei può essere insieme la moglie-madre-amante dei fratelli, del padre e del figlio.
Una storia come questa come poteva essere tradotta in opera ottocentesca?
Questo intrico scabroso e irrappresentabile, come poteva essere sopportato dal pubblico e dalle rigide autorità di censura? L’unica strada percorribile era, naturalmente, la reticenza: se pensiamo, la gran parte di questa vicenda e dei suoi antefatti semplicemente non viene raccontata. La conosciamo ugualmente attraverso la fonte dello scrittore francese, perché nel libretto di Romani l’azione incessante e tesa – di stile comico – prende quasi sempre il posto di numerosi racconti, di molti dettagli. Lucrezia viene ritratta in azione. Non è importante perché Lucrezia faccia quel che fa; l’importante è che la macchina di morte proceda inarrestabile. Ecco perché l’opera di Donizetti è tutt’altro che facile da connotare teatralmente: Lucrezia, così come l’azione che da lei dipende, è poliedrica e cangiante; non ha un carattere unico. In qualche modo, Lucrezia è malata di mente, ha quello che gli psichiatri definiscono un disturbo della personalità molto accentuato. Ho dunque cercato di utilizzare il colore dell’ora del lupo come elemento unificante, come tinta. Nel contempo ho voluto portare a evidenza scenica l’orribile retaggio che si cela dietro a Lucrezia, ma che è il vero motore del dramma. Immaginiamo per un istante che Lucrezia viva assieme alle sue colpe, o alle colpe connesse al suo passato, alla sua storia. Immaginiamo che la duchessa di Ferrara non possa discernere tra incubi e realtà. Un ambiente apparentemente descrittivo può divenire un labirinto di colonne. Un set di costumi apparentemente storico può essere l’allusione ad un ambiente corrotto. Il visibile può sconfinare nel visionario. La colpa potrebbe assumere anche la fisionomia d’uno spettro, e portare ad evidenza l’indicibile. È Donizetti in qualche modo a suggerirlo, con quel finale così diverso rispetto al dramma di Hugo. Per il drammaturgo francese Gennaro in punto di morte diventa un giustiziere; sua è la mano che colpisce e ‘purifica’ la mostruosità della Borgia. Nell’opera di Donizetti, invece, la purezza di Gennaro è totalmente preservata: lasciandosi uccidere passivamente aumenta per contrasto la nefandezza di Lucrezia. Insomma, la duchessa non viene purificata, come voleva invece Hugo; il sacrificio è incompleto e perciò non si celebra una vera catarsi. In Lucrezia di Donizetti la corte (duca Alfonso in testa) accoglie una confessione pubblica di parricidio. Lucrezia sopravvive con la peggiore punizione immaginabile: dopo aver assassinato il figlio non potrà emendare il delitto o sperare nel perdono degli uomini e di Dio. Insomma, con lo scioglimento di Lucrezia Borgia, il compositore traccia un impietoso ritratto noir della duchessa, un finale totalmente pessimista e senza possibilità di remissione dei peccati. La donna rimane sola, consegnata ai suoi rimorsi, alle sue colpe e ai suoi fantasmi.
L’opera di Donizetti, più che l’edificante percorso di purificazione immaginato da Hugo, rappresenta una disperata parabola di dannazione.

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