MARIA DE RUDENZ
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Maria De Rudenz Bergamo 2013 (Photo Studio UV)
Scene e Costumi di Angelo Sala
Luci di Claudio Schmid
Scene e Costumi di Angelo Sala
Luci di Claudio Schmid
Maria De Rudenz Bergamo 2013, Showreel con immagini da camera fissa in fondo sala
Scene e Costumi di Angelo Sala - Luci di Claudio Schmid
Maria de Rudenz
18-20-22 Settembre 2013
18-20-22 Settembre 2013
Teatro Donizetti
Maria De Rudenz: Maria Billeri
Corrado di Waldorf: Dario Solari
Enrico di Waldorf: Ivan Magrì
Matilde di Wolf: Gilda Fiume
Rambaldo: Gabriele Sagona
Corrado di Waldorf: Dario Solari
Enrico di Waldorf: Ivan Magrì
Matilde di Wolf: Gilda Fiume
Rambaldo: Gabriele Sagona
Conductor: Sebastiano Rolli
Director: Francesco Bellotto
Stage Designer: Angelo Sala
Costume Designer: Angelo Sala
Costume Designer: Angelo Sala
Light Designer: Claudio Schmid
NEL LABIRINTO BUIO DELLA PAZZIA
(Donizetti a Bergamo nel 2013: la malattia dell’Artista nelle sue opere)
(Donizetti a Bergamo nel 2013: la malattia dell’Artista nelle sue opere)
[...] Maria de Rudenz, diremmo, è storia da romanzo d’appendice ispirata alla Monaca insanguinata di Bourgeois e de Mallian, a suo tempo ci sembrò un testo appesantito da inverosimili svolte romanzesche ed orride tese al finale esasperato e truculento. Questo all’epoca del primo impatto con l’incisione discografica della registrazione dal vivo effettuata alla Fenice di Venezia nel 1981.
Davvero pareva difficile immaginare sulla scena un lavoro così strano, che allo stesso Donizetti non doveva piacere affatto… Ma l’allestimento registico bergamasco, curato da Francesco Bellotto, ci ha letteralmente spiazzati offrendo una singolare interpretazione del soggetto: la pazzia che sconvolge la mente ed ottunde la ragione aprendo lo scenario desolato della psiche ammalata, popolata di fantasmi. Da qui alla patologia che afflisse lo stesso musicista il passo è breve e ci dà l’occasione per un piccolo percorso esplorativo.
La vicenda è narrata come un flash back che ha dell’onirico e tortura con le sue immagini ossessive la coscienza dell’unico superstite, il solo scampato ad un’ecatombe e perciò destinato ad una solitudine senza fine. Genialmente la sua collocazione, in un contesto temporale di attualizzazione, è in un manicomio e qui l’unica traccia di vita concreta tra i fantasmi che incalzano è l’aggirarsi silenzioso di un infermiere addetto a somministrare le terapie. È un ambiente che richiama l’epistolario donizettiano nella sua parte più dolorosa e farneticante, quando la mente sopraffatta dalla malattia non distingue più la realtà dal delirio: «il servo lo avrebbe derubato? Ma perché lo si tiene prigioniero in quello strano albergo? Nessuno ha pietà di lui!… ». Donizetti anela a ritornare nel mondo del passato come Anna Bolena al suo castello nella radura, proprio mentre la vita reale si fa insostenibile, senza possibilità di fuga. Qui, per Corrado di Waldorf c’è un labirinto di immagini ad intrappolarlo e la regia si avvale di proiezioni inquietanti in cui luci e ombre creano figure evanescenti, ora tenere ed ora minacciose, dove domina lo spettro di una suora. Significativamente il soprano Maria Billeri, la castellana di Rudenz emersa dal tetro passato dell’abbandono da parte dell’amato nelle catacombe di Roma, appare in scena per tutto lo spettacolo in abito monacale, segno del destino di espiazione che si è scelta ma anche elemento ricorrente di un’ossessione patologica che deforma percezioni ed emozioni. È una donna tesa fra passione e penitenza, ma il lato oscuro prevale a tormentarla fino al parossismo e ad alimentare la sete di vendetta verso l’amante fedifrago e la sua innocente promessa sposa. Più che un racconto di vicende, osserva bene il regista nel libretto di sala, si tratta di una messa a fuoco delle emozioni che impediscono all’essere umano di padroneggiarsi con la forza della ragione. In questo baratro cadono fatalmente tutti i personaggi, compreso il fratello –rivale del protagonista, tutti inghiottiti da una stessa sorte ed accomunati da una vana ricerca della felicità.
Maria, creduta morta per ben due volte, ricompare nel finale cercando una catarsi liberante ed offrendo se stessa in sacrificio d’espiazione, perdonando per amore. Questo finale risente nell’allestimento bergamasco di un forte impatto drammatico: la spoglia della sposa novella di Corrado, assassinata nel talamo nuziale, viene portata in scena ed adagiata vicino al corpo di Enrico che invano l’ha contesa al fratello. Questo, impietosito, congiunge le mani dei due quasi in un' offerta silenziosa e rimane solo e delirante nell’immane cimitero.
La morte di Maria sembra così aver portato una pausa di pace e rassegnazione nel turbine passionale che ha sconvolto tutti i protagonisti. Ma tutto forse è un’illusione…
Dice bene Francesco Bellotto, nel suo scritto a commento della regia, tutto è poetica dell’irrazionalità. E calza bene con Donizetti! È indimenticabile in proposito la struttura della bellissima mostra allestita a Bergamo per il bicentenario natale del compositore nel 1997, articolata in meandri e sale buie proprio a delineare il labirinto della pazzia che lo afflisse, il disordine passionale che ne segnò la vita con i lutti, la tensione fra l’eros ossessivo e patologico e la sublimità artistica. Era commovente l’omologazione con il Tasso, protagonista di un’altra sua opera dimenticata, a proposito del quale il recente libro di Giorgio Appolonia, Cercherò lontana terra, rileva i legami che lo avvincono al musicista bergamasco, quasi unificando in certi momenti le due figure: Torquato ossessiona la mente di Gaetano al punto da generare in lui come un alter ego dal quale gli è difficile districarsi.
Una schizofrenia poetica che anche la mostra celebrativa sviluppava con i tratti della disperazione e del rimorso: nella Gerusalemme Liberata Tancredi uccide Clorinda, la donna che ama, senza conoscerne l’identità, Donizetti uccise senza saperlo la moglie Virginia per colpa del morbo incurabile che lo condannava senza speranza… È un abisso di dolore senza fine e le proiezioni delle figure marmoree dei personaggi del poema si confondevano fino a dar forma ad una pietra tombale.
In un'altra sala buia erano le regine protagoniste della trilogia dei Tudor a simboleggiare la grandezza dell’ispirazione musicale ed il segreto delle passioni più inconfessabili con il lento spogliarsi delle vesti regali fino all’apparire dei tre nudi femminili che, nonostante tutto, conservavano qualcosa di virginale e di indifesa innocenza. La più sconvolgente era l’allucinata Elisabetta a cui la vendicativa gelosia riserva, nello struggente finale del Roberto Devereux, soltanto un delirio di morte.
E non mancava certo l’evocazione della pazzia donizettiana per eccellenza, quella di Lucia, con i colori spettrali del bianco nuziale e del rosso del sangue…
Sempre nel volume di Giorgio Appolonia colpisce profondamente l’identificazione di questa figura con il fantasma dalle dita insanguinate, pervasivo ed ossessivo, che prende corpo silenziosamente per condividere il lutto per Virginia. Un altro alter ego del musicista nella vana ricerca di pace che trasuda dal suo epistolario, nell’anelito alla luce che, ormai alle soglie dell’annientamento cerebrale, lo induce ad implorare «Luce, luce! O quella di Dio, o quella dell’olio e della cera!» Proprio un labirinto buio e senza sbocco come quello rievocato dalla lettura registica di questa Maria de Rudenz del festival 2013[...].
Laura D'Alessandro
Recensione Completa in Donizetti Society Newsletter, Londra